π = 3,1415926535897932384626433832795028841971693993751105820974944592307816406…

PREMESSA

La ricerca di π è radicata profondamente nello spirito umano. Il rapporto fra una circonferenza e il proprio diametro, simbolicamente rappresentato dalla lettera greca π, interviene spesso in matematica, fisica, statistica, ingegneria, architettura, biologia, astronomia e persino nelle arti.

Il π è nascosto nei ritmi delle onde acustiche come di quelle del mare, ed è onnipresente sia in natura sia in geometria. Il matematico inglese Augustus De Morgan scrisse una volta, a proposito del π, “questo misterioso 3,14159…che entra da ogni porta e da ogni finestra e che si trova sotto ogni tetto”.

STORIA DEL PI GRECO

Ai bambini della scuola, normalmente, si fa fare questa semplice sperimentazione: una cordicella avvolta attorno alla periferia di un cerchio è poco più di tre volte più lunga del suo diametro. Misurando con maggiore precisione gli allievi scoprono che il valore del pezzo di cordicella che eccede il triplo del diametro è più di un ottavo del diametro ma meno di un quarto.

EGIZIANI

La più antica documentazione esistente di questo rapporto ci è stata lasciata da uno scriba egizio di nome Ahmes intorno al 1650 a.C., in quello che è noto oggi come il Papiro di Rhind. Ahmes scrisse: ” Togli 1/9 a un diametro e costruisci un quadrato sulla parte che ne rimane; questo quadrato ha la stessa area del cerchio”. Poiché sappiamo che l’area del cerchio è uguale a πr , se quest’area è il quadrato di 8/9 del diametro, il testo di Ahmes implica che il rapporto della circonferenza al diametro è pari a 16 – 9 = 3,16049… Il valore implicito di Ahmes si discostava di meno dell’1 per cento dal vero valore di circa 3,141592, manifestando una precisione notevole per quel tempo. Questo risultato non ebbe però alcuna diffusione. Mille anni dopo i babilonesi e gli antichi ebrei continuavano infatti a usare il valore 3, che era molto meno esatto. Le formule contenute nel Papiro Rhind sono anche il primo caso documentato di un tentativo di “quadrare il cerchio”, ossia di costruire un quadrato con la stessa area del cerchio.

Gli storici della matematica attribuiscono spesso agli egizi il valore di π= (256/81). In realtà non c’è alcuna prova diretta che gli egizi abbiano considerato π un numero costante, e tanto meno che abbiano tentato di calcolarlo. Essi furono invece certamente interessati a trovare il rapporto fra il cerchio e il quadrato , probabilmente allo scopo di misurare con precisione terreni ed edifici.

EBREI

La Bibbia ci fornisce informazioni molto chiare sul valore π raggiunto dagli antichi ebrei. Nello Antico Testamento, I Re,7:23, leggiamo a proposito dell’altare costruito nel tempio di Salomone: “Poi fece il mare fuso: dieci cubiti da una sponda all’altra cioè completamente rotondo; la sua altezza era di cinque cubiti e una corda di trenta cubiti lo circondava all’intorno”. Questo passo (che è quasi identico a π Cronache,4:2) indica che il rapporto della circonferenza al diametro è 3; esso fu scritto probabilmente intorno al VI secolo a.C. (anche se descrive il tempio costruito nel X secolo a.C.).

GRECI

Dopo che in Egitto lo scriba Ahmes ebbe registrato le sue formulazioni, per un migliaio di anni nessuno dedicò più molte riflessioni al rapporto fra cerchi e quadrati.. Per tutto quel tempo egizi e babilonesi ritennero che la comprensione elementare del rapporto fosse sufficiente ai fini dell’agrimensura e della costruzione degli edifici. Lo studio della misura del cerchio fu ripreso con rinnovato impegno nel quarto secolo a.C. dai greci. Il primo pensatore greco a tentare di trovare un rapporto definitivo fra un cerchio e un quadrato fu Anassagora di Clazomene (500-428 a.C.). La quadratura del cerchio fu uno dei problemi matematici più antichi.

Poco tempo dopo Antifonte e Brisone di Eraclea, contemporanei di Socrate (469-399 a.C.), tentarono di trovare l’area di un cerchio usando una brillante nuova idea: il principio di esaustione.

Se si prende un esagono e si raddoppiano i suoi lati trasformandolo in un dodecagono, e poi li si raddoppia ancora, e ancora, prima o poi si avrà un poligono con un numero di lati tanto grande da essersi trasformato in un cerchio. Prima Antifonte stimò l’area di un cerchio, calcolando l’area dei successivi poligoni -dal numero di lati sempre maggiore- in esso inscritti. Poi Brisone fece un secondo passo rivoluzionario, calcolando le aree di due poligoni, uno inscritto nel cerchio e l’altro ad esso circoscritto. Egli ipotizzò che l’area del cerchio dovesse essere compresa fra le aree dei due poligoni: questa fu probabilmente la prima volta che si determinò un risultato usando limiti inferiori e superiori. Un paio di secoli dopo, la sfida fu ripresa dal siracusano Archimede ( 287- 212 a.C.) uno fra i massimi pensatori della storia, straordinario matematico, fisico e inventore.

Quando rivolse la sua attenzione al cerchio, Archimede usò nei suoi calcoli i metodi di esaustione di Antifonte e Brisone. Si concentrò però sui perimetri dei due poligoni anziché sulle loro aree, trovando così un’approssimazione alla circonferenza del cerchio. Egli raddoppiò quattro volte i lati di due esagoni, ottenendo due poligoni di 96 lati, di cui calcolò i perimetri. Successivamente rese pubbliche le sue scoperte nel libro “Misura del cerchio”.( v. appendice 6): “La circonferenza di ogni cerchio è tripla del diametro, più una parte minore di un settimo del diametro e maggiore di dieci settantunesimi”(prop.3). Archimede sapeva di poter descrivere solo i limiti superiore e inferiore del rapporto, ma se si fa una media dei due valori si ottiene 3,1419, con un errore di meno di tre decimillesimi del valore reale.

Nella storia delle matematiche c’è dissenso sul problema se a calcolare il limite inferiore del rapporto come pari a 211875/67441 (ossia circa 3,14163) sia stato Apollonio di Perga (grande matematico, di trent’anni più giovane di Archimede) o lo stesso siracusano, fondandosi sulla “Misura del cerchio”. Ma chiunque abbia compiuto i calcoli, questo è l’ultimo valore registrato di prima che il famoso astronomo Tolomeo (87-165) usasse, oltre due secoli dopo, il valore meno esatto di 3 17/120 (circa 3,14167).

ROMANI

Al culmine del loro impero (27 a.C.- 476 d.C.), i romani usarono spesso per π il valore di 3 1/8 (pur sapendo che 3 1/7 era più esatto), perché per le loro legioni era più facile usare 1/8 (che è una metà di una metà di una metà). In effetti, un trattato romano di agrimensura contiene addirittura le seguenti istruzioni per la quadratura del cerchio: “Dividi la circonferenza di un cerchio in quattro parti e prendine una come lato di un quadrato; questo quadrato avrà l’area uguale al cerchio”. Ciò implica che π= 4. Conoscendo queste cose, ci sorprende che i romani abbiano potuto costruire i loro grandi monumenti.

CINESI

E’ noto che la Cina fu sede di una fra le più antiche civiltà scientifiche e matematiche. Ma benchè già nel XII secolo a.C. la matematica cinese avesse raggiunto buoni livelli, i cinesi continuavano a usare nei loro calcoli il valore di π=3. Gli autentici progressi della Cina nella misurazione del cerchio si sarebbero avuti solo novecento anni dopo. Ch’ang Hong, ministro e astrologo dell’imperatore An-ti nella prima metà del π secolo d.C., prima di morire, nel 139, scrisse che il quadrato della circonferenza di un cerchio sta al quadrato del perimetro del quadrato circoscritto come 5 sta a 8. Usando un cerchio unitario (un cerchio con diametro pari a 1), abbiamo che π /16= 5/8, cosicchè eseguendo il calcolo troviamo che il valore implicito di π è uguale a V10 (ossia circa 3,162). Pur essendo tutt’altro che esatto, il valore V10 divenne per molti anni l’approssimazione più popolare per π in tutta l’Asia. Wang Fau (229-267) adottava per π il valore di 3,156. Liu Hui, nel 263, usando il metodo di esaustione con un poligono di 3072 lati , trovò per π il valore di 3,1416.

L’astronomo del V secolo Tsu Ch’ung-chih, usando poligoni inscritti di almeno 24.576 lati (con ogni probabilità partì da un esagono e ne raddoppiò il numero dei lati undici volte: 6×2 ), dedusse ch eπ vale approssimativamente 355/113 (circa 3,1415929). Questo valore differisce di solo 8 milionesimi dell’1 per cento dal valore oggi accettato di 3,141592653589…Nessuno avrebbe trovato un valore più esatto per oltre mille anni.

INDIANI

Attorno al 530 d.C. il grande matematico indiano Aryabatha trovò un’equazione per calcolare il perimetro di un poligono di 384 lati; ne ricavò un rapporto fra circonferenza e diametro di V9,8684 (= 3,1414). Scrisse Aryabatha che se a è uguale al lato di un poligono regolare di n lati inscritto in un cerchio di diametro unitario, e b è il lato di un poligono regolare inscritto di 2n lati, allora b=V[1/2-1/2V(1-a )]. Questa è l’equazione usata per trovare il suo ben noto valore di π.

Il più grande matematico indiano del Vπ secolo, Brahmagupta calcolò i perimetri dei poligoni inscritti di 12, 24, 48 e 96 lati, ottenendo, rispettivamente, i valori di V9,65, V9,81, V9,86, V9,87. Poi, armato da questa informazione, fece un salto di fede supponendo che, all’approssimarsi dei poligoni al cerchio, i perimetri, e quindi il π, si sarebbero approssimati a V10. Era, ovviamente, del tutto in errore. Appare strano che non si sia reso conto che le sue radici quadrate stavano convergendo verso un numero significativamente minore di 10 (in effetti il quadrato di π è solo di poco maggiore di 9,8696). La radice quadrata di 10 fu tuttavia il valore da lui adottato, e fu il valore che si diffuse dall’India all’Europa, e che fu usato nel Medioevo dai matematici di tutto il mondo, forse anche grazie al fatto che è così facile da trasmettere e da ricordare.

ARABI

Nel IX secolo, matematica e scienza stavano prosperando nelle culture islamiche, specialmente nell’attuale Iraq, dove viveva e insegnava uno dei più grandi matematici, Abu ‘Abd-Allah ibn Musa al-Khwarizmi. Nelle sue opere usò per il π i valori di 3 1/7, V10 e 62.832/20.000, attribuendo il primo ai greci e gli altri due a matematici indiani. Fatto più importante, nei suoi scritti usò le cifre indiane, successivamente note anche come arabe, compresi lo zero e la virgola dei decimali.

MEDIOEVO

Nel 1085 Alfonso VI di Castiglia strappò agli arabi la città di Toledo e, con essa, una grande biblioteca. Il sovrano promosse la traduzione latina di opere scientifiche dall’arabo, dal greco e dall’ebraico. Anche i crociati dell’ XI-XIII secolo portarono in patria libri e insegnamenti. Adelardo di Bath, all’inizio del XII secolo, tradusse in latino gli Elementi di Euclide, l’Almagesto di Tolomeo, le opere di al-Khwarizmi e introdusse nell’Occidente i numeri arabi e la relativa notazione.

Nel 1202 Leonardo Pisano (Fibonacci) scrisse il Liber abaci , che contribuì alla diffusione in Europa dei numerali arabi e nel 1220, nella Practica geometriae, Fibonacci usò il valore approssimato di π di 1440/ (458 1/3) o di 864/275 (circa 3,1418). Il filosofo Alberto di Sassonia (1316-1390) scrisse nel “De quadratura circuli” che il rapporto della circonferenza al diametro era esattamente 3 1/7. Alla metà del Quattrocento il cardinale Niccolò Cusano affermò di avere quadrato esattamente il cerchio, trovando che il rapporto della circonferenza al diametro era di 3,1423. Il suo metodo sarebbe stato in seguito dimostrato falso da Regiomontano (Johannes Muller, 1436-1476). Nel 1579 Viète usò lo sperimentato metodo di Archimede dei poligoni inscritti e circoscritti per stabilire che π era maggiore di 3,1415926535 e minore di 3,1415926537. Per ottenere questo risultato raddoppiò i lati di due esagoni sedici volte, trovando il perimetro dei poligoni, inscritto e circoscritto, di 393.216 lati ciascuno. Ma benchè il suo valore, esatto fino alla decima cifra decimale, fosse la misurazione di π più esatta ottenuta fino allora, la conquista maggiore di Viète fu quella di esprimere π usando un prodotto infinito. Questa fu, forse, la prima volta in cui si usò un prodotto infinito per descrivere qualcosa; fu anche uno dei primi passi nella successiva evoluzione della matematica verso identità trigonometriche avanzate e verso il calcolo infinitesimale. Anche tre matematici olandesi del tardo cinquecento usarono il metodo archimedeo dei poligoni per calcolare π. Nel 1585 Adriaan Anthonisz trovò che 377/120>π>333/106. In notazione decimale, ciò significa 3,14167>π>3,14151). Otto anni dopo Adriaan van Roomen determinò π fino al quindicesimo decimale, usando in poligono inscritto di più di cento milioni di lati! Infine, Ludolph van Ceulen spese vari anni a calcolare π fino alla ventesima cifra decimale usando lo stesso metodo di Archimede, con la differenza che i suoi poligoni avevano più di 32 miliardi di lati ciascuno (60×2 ). Quando morì, nel 1610, van Ceulen aveva calcolato 35 cifre decimali, con gli stessi metodi usati dai matematici per migliaia di anni.

IL SEICENTO, SETTECENTO, OTTOCENTO

Il metodo di esaustione era troppo scomodo per essere usato da molti altri nel tentativo di procedere oltre. Nel 1621 il matematico olandese Willebrord Snell trovò un metodo di calcolare fondato più sull’intelligenza che sulla resistenza. Mentre i suoi predecessori avevano ogni volta raddoppiato il numero dei lati di un poligono, Snell trovò un’approssimazione migliore usando lo stesso numero di lati. Semplicemente inscrivendo e circoscrivendo un esagono a un cerchio, poté determinare che π è compreso fra 3,14022 e 3,14160. Usando un poligono di 96 lati, Snell riuscì a determinare il valore di π fino alla sesta cifra decimale e con un po’ più di lavoro riuscì a verificare le 35 cifre decimali di van Ceulen. Christian Huygens inscrivendo semplicemente un triangolo riuscì incredibilmente a uguagliare l’approssimazione di Archimede per il valore di π; con un esagono riuscì a determinare nove cifre decimali esatte, usando i limiti 3,1415926533 e 3,1415926538.

Il matematico inglese John Wallis, contemporaneo di Huygens, affrontò in modo nuovo il problema di trovare l’area di un cerchio. L’equazione di Wallis, come quella di Viéte, è un prodotto infinito, ma ne differisce per il fatto di implicare solo operazioni razionali senza alcun bisogno di radici quadrate. Nel seicento vissero molti altri grandi matematici: Pascal, Keplero, Cavalieri, Fermat, per citarne solo alcuni. Ognuno di loro fornì un pezzo importante alla soluzione del rompicapo e si avvicinò di un passo all’importantissima innovazione del calcolo infinitesimale.

James Gregory trovò una soluzione estremamente elegante del calcolo delle arcotangenti, che condusse poi a un metodo completamente nuovo di calcolare π: le serie di arcotangenti. Tre anni dopo che Gregory ebbe trovato questa nuova soluzione, il tedesco Leibniz scoprì indipendentemente la serie di arcotangenti. Leibniz fu uno dei padri del calcolo infinitesimale. L’altro padre fu Newton (1642-1727).

Per determinare il rapporto della circonferenza al diametro non bastavano più calcoli elementari. Il calcolo infinitesimale e le serie di arcotangenti permisero ai matematici di compiere calcoli molto più rapidi rispetto alla misurazione di poligoni; in effetti il calcolo di soli quattro termini di una delle serie di Newton dà 3,1416. Ben presto il vero problema divenne quello dell’efficienza: trovare un’equazione che convergesse su π con la massima rapidità. Alla fine del seicento, disponendo di questi nuovi strumenti, la ricerca delle cifre decimali di π fece un brusco salto in avanti. Nel 1699 Sharp trovò 72 cifre decimali; nel 1706 Machin 100 decimali; nel 1719 de Lagny calcolò 127 cifre (ma solo 112 erano corrette). Settantacinque anni dopo, Vega calcolò 140 cifre.

Poi,alla metà del settecento, rivolse per breve tempo la sua attenzione al calcolo di π uno fra i massimi e più prolifici matematici di tutti i tempi, Leonhard Euler (meglio noto come Eulero).

Eulero trovò molte formule di arcotangenti e serie per calcolare π, usò un metodo per calcolare 20 cifre decimali in una sola ora. Dopo i brillanti passi avanti di Eulero, l’Ottocento sembra decisamente scarso se ci si limita a considerare i progressi compiuti nei metodi per il calcolo di π .

In effetti, solo all’inizio del XX secolo un altro matematico avrebbe trovato un nuovo insieme di equazioni da applicare al problema. I cacciatori di cifre continuarono tuttavia a trovare un numero di cifre sempre maggiore: Callet 152 (1837), Rutherford 208 (1841), Clausen 248 (1847), Rutherford 440 (1853), Shanks 607 (1853), Shanks 707 (1873).

IL NOVECENTO

Nel 1945 D.F. Ferguson calcolò 530 cifre di π con una formula con arcotangenti. Questo risultato fu il frutto di un intero anno di lavoro con carta e penna, al ritmo medio di poco più di una cifra al giorno. Nel 1947 Ferguson, con l’aiuto di una delle prime calcolatrici da tavolo, aveva trovato 808 cifre di π. Nel 1948 Smith e Wrench trovarono la millesima cifra decimale di π. Nel 1949 G. Reitwiesner, J. von Neumann e N.C. Metropolis usarono il computer Eniac, con 19.000 valvole e centinaia di migliaia di resistori e capacitori, per calcolare 2037 cifre di π. Questo calcolo richiese solo settanta ore con una media di una cifra ogni due minuti. Con l’avvento dei computer elettronici, nel 1954, si potè calcolare 3089 cifre in soli tredici minuti ( circa 4 cifre al secondo). Nel 1958 le prime 704 cifre in soli 40 secondi., Le prime 10.000 cifre in un’ora e quaranta minuti. Nel 1961 con un Ibm 7090 furono trovate 100.265 cifre con un tempo medio di 3 cifre al secondo.

Nel 1973 J. Guilloud e M. Bouyer trovarono la milionesima cifra. Nel 1982 si trovò il valore di π fino all’8.388.608 ° (= 2 ) decimale in poco meno di sette ore. La combinazione di computer sempre più potenti e dell’algoritmo di Gauss-Brent- Salamin hanno lanciato i calcoli di π verso altezze stratosferiche. Mentre scriviamo, Kanada e Takahashi hanno calcolato e verificato più di 51 miliardi di cifre decimali di π , stabilendo un nuovo record mondiale.

Il fatto di conoscere un numero di cifre di π sempre maggiore non è di alcuna utilità in nessuna applicazione concreta che non sia quella di mettere alla prova un nuovo computer. Una migliore conoscenza della natura di π può invece rivelarsi importante per la comprensione della fisica, della geometria e della matematica.

π : UN NUMERO AFFASCINANTE

I tentativi di comprendere la natura del π ha impegnato moltissimi matematici. Uno degli sviluppi più importanti fu la dimostrazione che π era un numero irrazionale, dimostrazione fornita nel 1767 da J.H. Lambert (1728-1777). Ricordiamo che gli irrazionali sono quei numeri reali che non possono essere scritti come quoziente di due numeri interi, cioè non sono numeri frazionari. E’ abbastanza semplice mostrare che numeri come V2 o V3 sono irrazionali, ma si dovette attendere Lambert nel diciottesimo secolo per avere la dimostrazione dell’appartenenza di π a tale categoria. La sua scoperta assume un’importanza particolare se si pensa al fatto che i numeri razionali (le frazioni) hanno uno sviluppo decimale che può essere finito o periodico; cioè le cifre decimali o finiscono a un certo punto, o sono seguite solo da zeri, o mostrano una continua ripetizione di un certo blocco di numeri. Ora, se π fosse razionale dovrebbe mostrare uno di questi due comportamenti, e quindi prima o poi si dovrebbe determinarne definitivamente lo sviluppo decimale. Dimostrando che π era irrazionale Lambert garantiva invece che il computo dei suoi decimali non avrebbe mai avuto fine. Come se non bastasse, nel 1882 F. Lindemann dimostrò che π non solo era irrazionale, ma anche trascendente. Sinteticamente possiamo dire che l’insieme di tutti i numeri reali possiamo pensarlo suddiviso in due sottoinsiemi esaustivi e che si escludono a vicenda: i numeri algebrici e i numeri trascendenti. Possiamo identificare numeri algebrici con le familiari quantità che incontriamo nell’aritmetica o nell’algebra elementare. I numeri interi, per esempio, sono tutti algebrici, come tutte le frazioni ( numeri razionali), le loro radici quadrate, cubiche e così via. Un numero si dice invece trascendente se non è algebrico: se non è soluzione, cioè, di nessuna equazione polinomiale a coefficienti interi. La divisione tra numeri algebrici e trascendenti è una dicotomia forte, come quella del sesso tra gli esseri umani: o si è maschio o si è femmina, non ci sono vie di mezzo. Un punto fondamentale è che nessun numero trascendente può essere costruito con riga e compasso. Il merito di Lindemann fu dimostrare che π è un numero trascendente. In altre parole, π non è algebrico e perciò non è neppure costruibile. La scoperta di Lindemann dimostrò insomma che la quadratura del cerchio, un problema che aveva occupato i matematici dall’epoca di Ippocrate fino ai tempi moderni, era una causa persa. La riga e il compasso, da soli, sono insufficienti a trasformare i cerchi in quadrati.

La storia di π ci permette anche di parlare di uno dei più importanti matematici di questo secolo, S. Ramanujan ( 1887-1920). Nelle teorie di Ramanujan si trova un’anticipazione del metodo che sta alla base dei più recenti calcoli di π, anche se per applicarlo concretamente si è dovuta attendere la messa a punto di algoritmi efficienti, di moderni supercalcolatori e di nuovi modi per moltiplicare numeri. A distanza di quasi ottant’anni, scienziati e matematici sono ancora impegnati a studiare le affascinanti equazioni di questo genio, applicandole a problemi quotidiani e usandole per generare altri algoritmi, progettati per essere applicati in modo efficiente da computer. Queste sono equazioni iterattive: permettono cioè di reintrodurre nella formula i risultati del calcolo per avere un’approssimazione a π ancora migliore. I risultati sono incredibili perché ogni volta che si fa girare l’algoritmo si può raddoppiare o quadruplicare il numero delle cifre rilevanti. Ramanujan, come la maggior parte dei matematici, non poté resistere alla tentazione di esplorare π, e le sue grandi intuizioni permisero notevoli progressi nello studio del numero.

Le cifre di π si susseguono all’infinito in un fiume che appare del tutto casuale. Al di là del gusto di stabilire un certo tipo di record, potrebbe sembrare che il tentativo di calcolare milioni di posti decimali del numero sia del tutto ozioso. Trentanove cifre di π sono sufficienti per calcolare la circonferenza di un cerchio che racchiuda l’intero universo noto, con un errore non superiore al raggio di un atomo di idrogeno. E’ difficile immaginare situazioni fisiche che richiedano un numero maggiore di cifre. E allora perché matematici ed esperti di calcolatori non si accontentano, diciamo delle prime 50 cifre decimali di π ? Si possono dare diverse risposte. Una è che il calcolo di π è diventato una sorta di parametro per l’elaborazione: serve come misura della raffinatezza e dell’affidabilità dei calcolatori che lo effettuano. Inoltre, la ricerca di valori sempre più precisi di π porta i matematici a scoprire risvolti inattesi e interessanti della teoria dei numeri. Un’altra motivazione, più sincera, è semplicemente l’esistenza di π : “perché c’è”. In effetti, π è un tema fisso della cultura matematica da più di due millenni e mezzo. Per di più, esiste sempre la possibilità che questi calcoli servano a gettar luce su alcuni dei misteri che circondano π, una costante universale ancora non ben conosciuta nonostante la sua natura relativamente elementare.

Alla fine del ventesimo secolo non dobbiamo dimenticare che questo lungo viaggio matematico alla scoperta del π ha avuto inizio da un breve trattato scritto 2225 anni fa dall’insuperato Archimede di Siracusa: “La misura del cerchio”.

Per altre informazioni su π ino dei siti Internet migliori è joyofpi.com

Bibliografia

  • Opere di Archimede Utet 1974
  • Le gioie del π di D. Blatner Ed. Garzanti 1999
  • Viaggio attraverso il genio di W.Dunhan Zanichelli 1992 (cap I , IV e VII )
  • Le fascinant nombre π Ed. Belin Collection “pour la science” (in francese)
  • A history of Pi di P. Beckmann Martin’s Press 1971 (in inglese)
  • Pi: a source book di L. Berggren Springer Verlag 1997 (in inglese)
  • articoli vari su “Le scienze” (es. n 39 , 46 , 236…)
  • APPENDICE 1: Cronologia
  • APPENDICE 2: Disegni
  • APPENDICE 3: Formule
  • APPENDICE 4: La quadratura del cerchio è impossibile
  • APPENDICE 5: Il calcolo di π col metodo di Newton
  • APPENDICE 6: “Misura del cerchio” di Archimede

 

A cura del prof. Baldoni Renzo, direttore del Museo

   
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